Bruno Caccia nasce a Cuneo il 16 novembre 1917, entra in magistratura nel 1941, prestando da subito servizio presso la Procura della Repubblica del capoluogo piemontese, prima come uditore e poi come sostituto procuratore. Quando presta giuramento e viene immesso nel possesso delle funzioni non ha ancora 24 anni e possiede già una doppia laurea: in Giurisprudenza e in Scienze politiche.
Nel 1964, a soli 42 anni, è nominato Procuratore della Repubblica di Aosta, il 16 ottobre di quell’anno, si insedierà nel nuovo ufficio. Tornerà nel capoluogo piemontese nel 1967 per assumere le funzioni di sostituto procuratore generale.
Nel 1972 presenta domanda di ammissione allo scrutinio ordinario per la promozione in Corte di cassazione. È nel ruolo di Sostituto procuratore generale di Torino che raccoglie le dichiarazioni confidenziali di Patrizio Peci (che porteranno all’arresto di 70 brigatisti) e firma la richiesta di rinvio a giudizio del nucleo storico delle Brigate Rosse, che vede tra gli altri imputati Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari. Le indagini avevano preso avvio dal sequestro di Mario Sossi, sostituto procuratore in servizio a Genova: circostanza, questa, che determinava lo spostamento della competenza alla Procura di Torino.
Il 27 febbraio del 1980 assume le funzioni di Procuratore della Repubblica di Torino. Nella città di Torino, che si stava faticosamente lasciando alle spalle gli anni di piombo, avevano cominciato a insediarsi (come stava accadendo anche in altre città del nord Italia) alcune famiglie della criminalità organizzata siciliana e calabrese, le quali svolgevano attività illecite anche grazie alle complicità di diversi soggetti, a vario titolo a servizio dello Stato.
Nel periodo in cui è alla guida della Procura della Repubblica di Torino, Bruno Caccia svolge – direttamente o indirettamente – importanti indagini che saranno di ostacolo alla vita della criminalità mafiosa (come quella a carico di Germano Oseglia, medico del centro clinico ospedaliero delle carceri giudiziarie di Torino, che dietro pagamento, rilasciava certificati falsi ai detenuti dei clan, per attestarne l’incompatibilità con il regime carcerario).
Molte delle indagini interesseranno, quindi, punti nevralgici della vita sociale ed istituzionale del Paese, alterando gli equilibri di quella zona grigia in cui si muovono pezzi di criminalità e parti “infedeli” dell’amministrazione pubblica (come nel caso delle inchieste sul contrabbando dei petroli, sulle tangenti o quelle sul riciclaggio di denaro sporco tramite i Casinò del nord Italia).
In questo contesto, si comprende allora – usando le parole di chi per molto tempo è stato considerato l’unico responsabile della morte di Bruno Caccia – che il procuratore doveva essere ucciso perché “inavvicinabile”, perché “si infilava in tutti i discorsi della Procura”, “perché peggio di Caccia per noi non c’è nessuno“.
Domenica 26 giugno 1983 Bruno Caccia aveva, come era solito fare, deciso di concedere un giorno di riposo alla propria scorta. Intorno alle 23.30, mentre portava a passeggio il proprio cane, viene affiancato da una macchina (una Fiat 128 di colore verde) con almeno due uomini a bordo. Verrà raggiunto da 14 colpi, alcuni esplosi a distanza ravvicinata.